L’educazione è politica. Non c’è nulla di neutrale nella relazione pedagogica tra educatore ed educando, come non esiste pratica sociale e comunitaria che non ci permetta di schierarci. L’operatore sociale quindi, sia come cittadino sia come “attore pubblico”, che ne sia consapevole o no, non può esimersi dal prendere posizione, dal prendere coscienza di una sua militanza per un’idea di mondo e di società.
Quindi, nell’attualità della crisi capitalistica – ed estremizzando i termini del discorso – ci sono due scelte.
La prima è quella di operare tra equilibrismi ideologici che tengono insieme concetti vetusti, consolatori, ingannevoli e vuoti come le “competenze”, “la sussidiarietà”, “le responsabilità condivise con il territorio”, “la prevenzione”, con una realtà che in nome del ripagamento del debito, dell’austerità, del Fiscal Compact e del Pareggio di Bilancio promuove tagli ai servizi essenziali, smantella i diritti fondamentali dei lavoratori e distrugge il welfare pubblico.
La seconda, invece, è quella di organizzarsi per confliggere e ribaltare tutto questo promuovendo riflessione critica, partecipazione comunitaria e soluzioni alternative al sistema di oppressione, realizzando un rapporto rivoluzionario tra educazione (sociale) e politica(o).
Nell’ultimo Caffè Pedagogico organizzato da Elianto, dedicato al tema dello Spazio e degli Spazi, Mira Andriolo ha definito l’arte e il teatro come “atti” che aprono Spazi. Sappiamo bene quanto sul tema degli Spazi e sulla concezione Pubblico/Privato si stiano giocando le sorti delle Politiche europee, nazionali e cittadine. E sull’uso dello spazio e soprattutto su come questo viene ordinato ideologicamente ci sono forti implicazioni pedagogiche.
Da sempre gli spazi pubblici, le piazze, i luoghi di ritrovo informale e le strade rappresentano uno degli elementi del dispositivo educativo di una città, e più precisamente, riteniamo che in questi contesti ci si formi e ci si definisca come soggetti che si aprono alla collettività. Nell’agorà pubblica si scopre e si agisce l’esperienza umana che è sociale e comunitaria.
Già in questi enunciati si può intuire in maniera netta la nostra contrarietà rispetto all’ondata di privatizzazioni che stanno riguardando centri sportivi, parchi e centri pubblici anche nelle nostre zone. La nostra resistenza è motivata non solo perché queste “chiusure” sono giustificate da vincoli di bilancio o dall’ansia di controllo sociale, ma perché, così ragionando ed operando, la città diventa merce.
Dagli spazi alla gestione dell’acqua, passando dalla sanità ai trasporti e giungendo fino al nostro focus privilegiato dell’educazione, ciò che si realizza attraverso la privatizzazione di questi ambiti delle città è la mercificazione dei rapporti sociali e umani. Se avviene ciò, si mercificano le persone e le loro relazioni: di questo, un’Educazione che si vuole critica e resistenziale deve occuparsene.
Queste riflessioni, seppur preliminari e non esaustive, sono la base su cui ci piacerebbe continuare il dibattito nei prossimi due Caffè Pedagogici, dove con forme partecipative e dialettiche, proveremo a stimolare un percorso teorico-pratico di riappropriazione degli Spazi (pubblici).
A questo punto ci pare chiaro l’orizzonte a cui ci piacerebbe affidare la nostra ricerca pedagogica, che è quello che fa riferimento alla categoria dei Beni Comuni. La nostra proposta, che in questa sede può essere solo delineata parzialmente, intende progettare le Politiche giovanili, gli Spazi entro cui si sviluppano e l’Educazione in mano Pubblica, ma con una gestione totalmente rinnovata ed incompatibile sia con la logica del profitto dei privati, quanto con una mera azione dello Stato, che in molti casi riproduce modalità organizzative che possono portare all’esclusione di quel Bene, affini a quella privata. E’ evidente la distinzione tra un vago, sterile, e oramai di moda richiamo al bene comune (inteso come fine ultimo armonico di una società) rispetto ai Beni Comuni, che dai referendum per l’acqua pubblica fino alle occupazioni dei teatri da parte dei lavoratori artistici, parla di conflitti per la riappropriazione da parte della comunità di un Bene che le è stato sottratto.
A livello locale, questa impostazione porterebbe un cambio di paradigma nelle pratiche educative (penso ai CAM, agli Estate ragazzi e ai progetti di Politiche giovanili in genere) per i contenuti pedagogici, per le metodologie utilizzate e per la condizione lavorativa dei vari operatori coinvolti. Le Politiche Giovanili così delineate e agite, non verrebbero più considerate come un ambito o un settore di cui occuparsi in senso specialistico, ma diventerebbero parte di una concezione Politica generale. Non si dovrebbe più cadere nell’equivoco di considerare l’Educazione popolare come appendice di quella scolastica, o solo delegata alla prevenzione (di cosa poi?), o semplice promotrice di servizi nel mercato del cosiddetto tempo libero giovanile. Le Politiche Giovanili e l’Educazione come Beni Comuni tenterebbero l’ambizioso e delicato compito di fornire le coordinate teorico-pratiche per la formazione dei giovani cittadini, considerandoli in quanto Soggetti, che in maniera democratica e dialogica (con l’educatore) partecipano attivamente alla loro crescita e alla vita pubblica della città.
Le attività educative, che negli anni si sono presentate come risposta immediata al bisogno dei genitori (impegnati nel lavoro) di un approdo per i loro figli, si sono configurate con il metodo dell’attivismo, che pian piano ha sostituito con la bulimia di proposte per occupare il tempo e gli spazi, il tema della formazione e dell’educazione delle nuove generazioni. Ora è venuto il tempo di rioccuparci tutti (lavoratori del sociale, famiglie, ragazzi e ragazze…) del Senso e dell’indirizzo delle attività e degli spazi dedicati all’Educazione, promuovendo dibattito pubblico e partecipazione, Presidi educativi sul territorio che ripensino l’opera educativa come momento sintetico e fondante, per un tempo liberato che non sia indirizzato ad un risultato misurabile e che sia fuori dall’ottica del profitto e dell’utile. Perché non iniziare dal rinominare questi Spazi come Centri di Cultura Pedagogica? Dove il vero laboratorio sia quello di Comunità (e non lo scimmiottamento vergognoso dei talent televisivi), dove quest’ultima elabora pensieri e pratiche formative volte a creare un ripensamento e un rinnovato concetto di vita in società.
In ultima, ma non per importanza, la spinosa questione dei lavoratori del Sociale che in molti casi non vengono riconosciuti contrattualmente, o vivono sotto scacco di politiche sociali che inducono alla precarietà e alla mancanza di indirizzi e tutele.
Ora, la prospettiva dei Beni Comuni (prendendo spunto da altre realtà nazionali in vari ambiti, Teatro Valle, Macao, etc…), potrebbe portarci a ridefinire in un fare comune la nostra professione, le nostre mansioni, al riconoscerci come lavoratori e quindi portatori di diritti che rifiutano le forme di precarietà, di “lavoro nero”, e si sperimentano in forme di condivisione del senso del lavoro svolto con la Comunità tutta, riducendo specializzazioni e divisioni interne (come per esempio nelle cooperative sociali).
Non è giunta l’ora, anche nel nostro territorio, quanto meno di provarci?