I 10 COMANDAMENTI DELL’OPERATORE

By | 13 gennaio 2015

I. Non avrai altro paradigma all’infuori di me (la cura)Credo dobbiamo riprendere il discorso di chi siamo. Siamo persone che professionalmente praticano la cura come attenzione, produciamo una conoscenza preziosa a tutti: quella di chi accompagna gli stati della vita. Non siamo tecnici e non siamo né i primi né gli ultimi della lista.

II. Non usare parole improprie quando pensi e agisciCredo che dobbiamo ridare grande attenzione alle parole che usiamo per evitare di essere fraintesi, per dare statuto scientifico al nostro discorso, che mai può ridurre l’altro e la sua biografia alle categorie che usa e, proprio per questo, è estremamente attento a quelle. Il significato e il senso della nostra professione sta anche in questo: svelare il senso ed essere significanti.

III. Ricordati di studiare e aggiornati senza essere settoriale. Credo che dobbiamo pensare a riformulare la formazione. Affiancare alla formazione di contenuto una formazione di processo che vuol dire pattern, confronto e apertura, riapprendere a fare processi e non solo atti. Sogno corsi ove l’apprendimento di trucchi e tecniche sia secondario e prevalga l’etica, la filosofia, il senso e il significato…

IV. Onora ciò che la letteratura ci insegna. Credo che dobbiamo tornare ai nostri maestri, con umiltà. Mi pare che troppo tempo abbiamo ascoltato le sirene di falsi profeti che ci hanno illuso che il respiro corto dell’auto-referenzialità, della tecnica come soluzione alla nostra identità, della specializzazione come modo per aver rispetto, ecc…potessero risolvere i problemi.

V. Non far sperimentare fallimenti ai tuoi utenti. Primum. Non nocere. Il corpo di chi consulta è piegato dal danno. Per prima cosa non fare altro danno. E se ci diranno che abbiamo pochi risultati, che qualitativamente non siamo all’altezza perchè facciamo pochi inserimenti, pratiche, ecc…appelliamoci all’etica delle virtù e non a lamentazioni per i pochi, invero, strumenti.

VI. Non venderti per un piatto di lenticchie o per buona convivenzaSe non ci convertiamo, altri, al nostro posto e al posto degli utenti e dei loro contesti, decideranno come sarà il Welfare. E ci troveremo, pubblico o privato che sia, a ripetere la litania dei potenti. Ne saremo asserviti. Non vale la pena mediare. Come negli anni sessanta e settanta, pur sapendo che i tempi sono differenti e le modalità di lotta di conseguenza, dobbiamo buttare a mare i piatti di lenticchie che ci mettono di fronte e pretendere cibo buono.

VII. Non chiuderti nelle pratiche. V’era un tempo in cui facevamo cultura, in cui le questioni dei nostri utenti (la follia, la devianza,…) informavano persino i “porta a porta” di allora, in cui ciò che scrivevamo non finiva negli scantinati di assessorati. Dobbiamo tornare a quel tempo. Trattiamo la vita e quella sua forma così importante e diffusa che è il sociale: ne abbiamo di cose da dire.

VIII. Non dire menzogne. Dobbiamo avere il coraggio della verità. Ad esempio, dobbiamo avere il coraggio di dire che tanta (non ovviamente tutta) formazione professionale per soggetti svantaggiati ha foraggiato chi la faceva ma non ha incluso chi la subiva, oppure che la pratica puramente assistenziale tutta centrata sul caso è dannosa, e ancora che le emergenze non esistono, la cronicità è una condizione e non una iattura, che la guarigione è una eventualità della cura ma non l’obiettivo,ecc…

IX. Non desiderare di essere come altri servizi che ti appaiono più rispettati e prestigiosi. (…) Proviamo a costruire una nuova organizzazione su un modello adeguato al compito che svolgiamo, ad esempio il team di ricerca. Non ce lo lasciano fare? Lottiamo.

XPiantala lì di lamentarti e lottaDobbiamo aprire una nuova stagione di lotta. Siamo una minoranza certo, ma una minoranza passiva. Dobbiamo diventare una minoranza attiva. I vecchi di noi come il sottoscritto ( quelli che non hanno venduto il bip) hanno imparato molto su cosa significa lottare in questo settore. Nel bene e nel male.

E’ tempo di trovarci e incominciare a lottare. Su due strade: Una, che è nostra propria, quella definita della sperimentazione di forme e modi innovativi di fare intervento sociale. L’altra, che possiamo apprendere è quella di chi sa che lottare è fare profezia.

Nel caso di trasgressione a questi comandamenti è severamente vietato sentirsi in colpa. Già dietro molte storie v’è come motivazione la colpa, la colpa sociale soprattutto. Sappiamo bene che la colpa è il modo migliore per produrre ulteriori danni.

tratto dall’inserto di Merlo Roberto “Ma quanto costa il sociale!” in Animazione Sociale (n°193/2005).Merlo Roberto è psicoterapeuta e formatore. Lavora in Italia e all’estero nel campo della cura e della prevenzione degli stati di sofferenza personale e sociale.