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Una debole professione
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Scopo di questo laboratorio sulla professionalità non è quello di proporre una nuova definizione di educatore da affiancare alle altre operazione che sul piano pratico sarebbe piuttosto sterile, quanto di sviluppare un discorso sulla nostra Professione “debole” date le difficoltà attuali ed evidenziate anche nelle precedenti giornate del corso. Discorso che funga da bozza di lavoro per una rappresentazione il più sufficientemente integra del nostro ruolo. Ci sono molti punti critici che ci spronano ad un ragionamento sul nostro profilo, ne abbiamo scelti cinque sapendo che rappresentano solo una parte di un discorso ancora più complesso ed articolato

Educatore tuttofare
Gli enti e il territorio spesso fanno difficoltà ad identificare il ruolo degli educatori considerandoli una specie di factotum a cui si possono chiedere e affidare tutte quelle mansioni e tutte quelle attività che non si sa bene a chi competono. Ancora oggi numerosi direttori di consorzi si chiedono e ci chiedono chi siamo a cosa serviamo, basterebbe fare un elenco delle mansioni che ci vengono richieste:
-Progettazione di servizi
-Progettazione ed interventi educativi su singole situazioni che riguardano minori, portatori di handicap, anziani, etc...
-Mediazione familiare
-Trasporti
-Formazione
-Gestione di gruppi
-Interventi nelle scuole
-Controllo sociale
-Lavoro sulle politiche giovanili
Inoltre senza addentrarci nel dibattito politico del condividere o no questi mandati, ci pare che si sia sviluppato negli ultimi anni un sistema “mercato” anche nel settore del sociale che ci fa vedere innanzitutto i committenti e purtroppo a volte anche gli utenti come “clienti” e che promuova concorrenza tra i vari operatori del sociale che si vivono come in lotta tra di loro per ottenere un riconoscimento personale che nulla ha di positivo perchè non proiettato sul cambiamento del contesto sociale e non promuovente una crescita collettiva del nostro lavoro.

Il buono
Se è vero che per svolgere al meglio la nostra professione è necessario combinare conoscenza teorica, attività pratiche e impegno personale, e non tralasciando che sicuramente l'attitudine personale svolge un ruolo fondamentale è da rendere chiaro che l'educatore non svolge la sua attività per vocazione, senza una specifica preparazione, in poche parole dobbiamo ribadire che la nostra è una PROFESSIONE non una missione di vita. Questo è da ribadire in quanto nei nostri servizi e nei nostri territori veniamo visti come i “buoni” “ quelli che guardano i bambini, gli anziani, i disabili” che ha permesso da un lato di rassicurarci in qualche maniera sulla nostra fumosa condizione lavorativa, ma che al tempo stesso a volte ci ha reso operatori che svolgono le loro mansioni in virtù di una presunta maggiore sensibilità senza però possedere alcuna qualifica e dignità professionale.

Assenza di uno specifico, quali competenze, quali prospettive?
Dati questi primi due punti allora in cosa consiste il nostro specifico professionale? Quali sono gli oggetti e i terreni in cui si esprimono capacità e competenze? Resteremo sempre una via di mezzo tra psicologia pedagogia e sociologia. Dei moderni tuttologi buoni per qualunque stagione e per qualunque mansione? Aldilà delle rivendicazioni sindacali diventa di fondamentale importanza andare a definire uno specifico professionale. Ci sembra di intravederlo nel discorso intorno alla relazione, alla capacità di costruire e mantenere legami finalizzati alla costruzione di una comunità locale che sappia “farsi carico” ed essere ambiente di crescita e di realizzazione individuale e sociale. E se questo è vero allora quali le competenze necessarie? Anche qui ci pare che le conoscenze multidisciplinari possano essere non solo utili, ma funzionali a proporci come attori non solo sociali ma culturali, nel senso di essere promotori di un'analisi critica della realtà con azioni costruttive. Ovviamente viene riproposta la questione delle azioni specifiche da proporre come caratterizzanti anche qui trasversali e la questione della

Formazione
Data la particolarità della nostro lavoro che ha a che fare con il potere, e che interviene sui contesti sociali, con le vite altrui la questione della formazione è al tempo stesso determinante e delicata. Accanto alla preparazione istituzionale (corsi di laurea, corsi professionali) che nonostante nella maggioranza degli atenei e delle scuole di specializzazione si sia rifugiata in un tecnicismo teorico volto all'aziendalizzazione della nostra professione, riteniamo comunque essenziale come base teorica, un altro ambito da sviluppare è quello della preparazione più pratica (stages, tirocinii) poco legata ad un'impressione realistica delle dinamiche educative attuali. Quale spazio per il pensiero e per una formazione continua? Deve essere considerata un'attività complementare o subordinata al quotidiano?

Chi siamo, spazi di confronto
Una grande difficoltà pare essere anche quella del confronto. Avere spazi di riflessione e scambio di esperienze, idee e riflessioni, diventa vitale per proseguire i percorsi di ridefinizione continua degli specifici professionali, Ma quali spazi abbiamo a livello locale? Negli enti maggiori si fa’ fatica ad ottenere la possibilità di riunioni monoprofessionali. A livello territoriale non è pensabile la possibilità di uno spazio di confronto e di incontro? D’altro canto saremmo noi disposti ad avviare un processo dal basso per favorire il confronto e il rafforzamento della nostra figura professionale? Siamo disposti ad investire tempo e risorse “nostre” (credo nessuno si illuda di poter contare tanto sugli enti) per fare questo? Si sente effettivamente il bisogno di sentirsi corpo intellettuale collettivo? Si può pensare oggi a una pedagogia che sia introspettiva che consenta a chi si occupa di educazione di riappropriarsi di responsabilità e capacità di ascolto collettivi per favorire una crescita e uno sviluppo che porti ad una definizione professionale più chiara?