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Intervista a Mantegazza
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Sappiamo quanto il rapporto con il territorio possa risultare per l'educatore questione particolarmente problematica. L'educatore fa i conti con il territorio non soltanto quando il mandato gli chiede di fare educativa territoriale, li fa anche quando a partire da un percorso di accoglienza in comunità cerca di costruire “ponti” per l'integrazione sociale e lavorativa,

li fa quando dopo aver costruito nell'informalità una relazione con il gruppo di adolescenti li vorrebbe accompagna re al rapporto con una città percepita distante e ostile, li fa in ogni caso nel tentativo di restituire i problemi di cui è chiamato ad occuparsi alla collettività. Fare i conti con il territorio significa fronteggiare le difficoltà che il lavorare in rete con altri soggetti e il tentativo di integrare (anziché settorializzare) progettualità e risorse incontrano, ma fare i conti con il territorio significa oggi anche comprenderne le trasformazioni e sapersi al riguardo porre domande capaci di aprire a nuovi orizzonti di senso.

quot;>La socialità delle persone ha ancora piede nei territori o dimora altrove? La costruzione dell'identità personale e sociale è un processo che ancora trae origine dall'appartenenza ad un territorio? Tali processi si stanno extra-territorializzando? Se così fosse, su che terreno si deve giocare la sfida educativa?
Attorno a queste ed altre domande incontriamo l'esperienza e la competenza di Raffaele Mantegazza, docente di pedagogia dell'Università Bicocca di Milano, in occasione dell'avvio del corso di formazione "Educatori e territori. Il ruolo dell'educatore nello sviluppo della comunità locale", tenutosi a Torino presso la Fabbrica delle "e", Associazione Gruppo Abele.

Moltissimi educatori sono chiamati a vario titolo a lavorare con e sul territorio, fanno della dimensione territoriale scenario e strumento del proprio agire, incontrano territori diversi per cultura, storia e configurazione sociale. Che rilevanza può avere oggi la parola territorioin seno al discorso educativo? Cosa vuol dire portare l'educazione su un territorio?
Osservo, innanzitutto, come la parola "territorio" abbia scacciato la parola "sociale" dai nostri discorsi, ne abbia per così dire preso il posto attraverso una vera e propria usurpazione. Parlo di usurpazione riferendomi ad una sostituzione illegittima della più ricca ed articolata parola sociale. Il concetto di territorio, infatti, semanticamente parlando, non sarà mai in grado di coprire l'estensione del concetto sociale ed è forse una "coperta troppo corta" per chi oggi pensa ad un'irrinunciabilità della dimensione sociale all'interno del discorso pedagogico. Per entrare poi nel merito della vostra domanda, ritengo non si possa portare l'educazione in un territorio nel senso dell'educare nel territorio, ma invece operare il processo inverso: portare i territori dentro l'educazione. Il territorio non può essere considerato un semplice reattivo chimico, una base neutra sulla quale fare esperimenti educativi. Io credo che si debba invece manipolare il territorio entro il quale l'incontro educativo avviene, credo che l'educatore debba afferrarlo e portarlo dentro un diverso sistema di relazioni. Quando parliamo di educazione di strada, io dico bellissimo e interessantissimo esperimento, ma quella lì per me non è più la strada di prima. È piuttosto la strada trasfigurata da un'intenzionalità educativa.
Questo processo andrebbe dunque prodotto: la trasfigurazione del territorio all'interno di una relazione educativa e non il semplice abitare la strada, il quartiere o la piazza del paese come educatore. La sfida sta in questo, nella capacità di trasformare l'ambiente nel quale la relazione educativa si costruisce in un "dispositivo" pedagogico, pensato e allestito in ragione di quelle che sono le finalità di cui l'educatore è portatore. Altrimenti corriamo il rischio di pensare che l'educatore possa recarsi sul territorio come se in quel luogo non ci sia affatto educazione, come se fosse contesto vuoto dal punto di vista pedagogico. Mai questo retro-pensiero è stato così poco vero. Mai l'educazione ha trionfato come oggi sui territori, mai si è diffusa tanto, mai ha permeato tanti aspetti della vita quotidiana (lavoro, tempo libero, sport, ecc.). Eppure mai come oggi l'impressione è che l'educazione sia in crisi, mai come oggi appare in "vacanza" (pensiamo a quanto spesso denunciamo l'assenza di figure adulte capaci di essere riferimenti per i nostri figli...). Un apparente paradosso. Un paradosso che si spiega soltanto comprendendo che l'educazione ha cambiato oggi profondamente il proprio aspetto. Ha cambiato volto. L'agire pedagogico si presenta infatti come processo diffuso e parcellizzato, esito del fatto che il linguaggio e gli strumenti dell'educazione sono ormai patrimonio suddiviso tra molteplici agenzie, proprie della dimensione informale e quotidiana del vivere in un territorio. Quell'agire pedagogico è però sommerso, sotto traccia e per lo più invisibile. Assunzione di responsabilità spesso non assunta consapevolmente e non dichiarata. In questo doppia caratterizzazione, forse e apparentemente contraddittoria, segnata da diffusione e insieme sommersione, ritengo dimori la crisi dell'educazione, che è una crisi di senso e allo stesso tempo la sua pericolosità. L'educazione diffusa lavora infatti con gli strumenti dell'educazione, ma ne nasconde i fini. Non è mai un processo a-intenzionale. L'intenzionalità viene occultata. Ci dobbiamo chiedere però: quali sono i fini di quest'agire pedagogico diffuso? Verso quale idea di uomo, di cittadino, di città ci si è messi in cammino? Per tornare all'educatore e al suo rapporto con il territorio, dobbiamo allora ricordarci che andare su un territorio, recarsi all'interno di uno spazio urbano abitato da storie e culture diverse per costruire relazioni con i giovani di quel quartiere o di quel paese, significa incontrare persone già educate, educate in famiglia, dalla scuola, ma soprattutto dalla vita che scorre su quei territori e già educate alla politica, magari ad una politica che a molti di noi può non piacere.
Lei afferma non possa esistere relazione pedagogica neutra, che non celi una qualche intenzionalità e finalità, vale a dire che l'educazione è sempre conseguente e strumentale ad una progettualità riferita al soggetto che ha difronte (il riferimento va anche al testo "La fine dell'educazione", edito da Edizioni Città Aperta nel 2005) e al contempo osserva come l'educazione oggi si presenti nelle vesti di prodotto light che non può non piacere proprio perché a-politico, perché intesa come puro accompagnamento al crescere e come sostegno ad un cammino la cui direzione non spetta all'educatore indicare. Ebbene, come l'educatore che fa oggi dell'educazione la sua professione dovrebbe secondo lei collocarsi in seno a tale contraddizione? L'educatore dovrebbe essere portatore di una diversa idea educativa, di una diversa concezione dell'educare? Dobbiamo oggi tornare a dirci cosa sia realmente l'educazione?
Penso possa risultare in effetti utile tale riflessione, orientata alla ricerca dei fondamenti dell'educazione. Sono a tal proposito solito proporre, ai miei studenti, il seguente esercizio di pensiero. Siamo in piena Amazzonia. Sulle rive di un fiume vive un indigeno cinquantenne, da sempre isolato dal mondo. Sulle rive di quel fiume egli ha costruito la propria casa e lì vive, con i suoi animali e il suo orto, mantenendosi da solo e senza alcun contatto con il mondo. Avviene un'alluvione, il fiume distrugge la sua casa e tutto ciò che faticosamente aveva costruito, ma egli riesce a trarsi in salvo, rifugiandosi su una collinetta poco più alta del livello del fiume. Arrivate voi, turisti, da soli, su un elicottero. Vedete la situazione e decidete di scendere nel tentativo di salvarlo. Proponete all'indigeno di salire sull'elicottero, ma egli rifiuta, vuole rimanere dov'è e capite che nel dirlo è perfettamente lucido e cosciente. Ma non c'è più tempo per le parole, le acque salgono, rischiano di raggiungere lui e voi! Avete due possibilità: la prima è lasciarlo dov'è rispettando la sua volontà, ma sicuri che egli morirà, la seconda è dargli un cazzotto in testa, tramortirlo e portarlo via di peso. Cosa scegliete di fare?. Cosa si nasconde dietro la scelta? Se sceglieste la prima, fareste prevalere il principio della libertà personale, il ritenere che nessuno possa decidere al posto di nessun altro, soprattutto se capace di intendere e di volere. Nel prevalere della seconda, vincerebbe invece il principio della vita come valore universale, cioè il valore della vita verrebbe assunto a valore universale, la cui affermazione verrebbe a prevalere su qualsiasi altro valore, compresa la libertà altrui, la libertà di lasciarsi morire.
Io credo che l'educazione sia proprio il cazzotto in testa. Ritengo che l'educazione nasca nel momento stesso in cui qualcuno si arroga il diritto di scegliere cosa sia bene o male per qualcun altro. Vi invito a pensare a tutte le situazioni educative possibili e vi sfido a confutare la tesi che riconosce a tutte quelle relazioni il fondarsi sul presupporre da parte dell'educatore cosa sia meglio per la persona che ha di fronte. La tesi sarebbe comunque valida, io ritengo, anche se ciò l'educatore presuppone, ciò che egli decide circa la persona che ha di fronte sia la sua auto-determinazione, cioè la sua libertà nello scegliere la sorte. Siamo giunti al punto. Voglio intendere che riconoscersi, in quanto educatori, come coloro i quali si arrogano il diritto di scegliere per qualcun altro significa riconoscere che l'educazione è una vera e propria forma di potere. Forse una delle forme di potere più subdole e pericolose. Voler educare una persona significa infatti proporgli di entrare in una relazione di dipendenza, dipendenza che può variare da un livello minimo ad uno massimo, a seconda della situazione. Una relazione, quella tra educatore e educando, caratterizzata dal dipendere del secondo dal primo, cioè dalle decisioni che egli prenderà, da ciò che egli deciderà in termini di setting, di contenuti o di strumenti pedagogici. In questo sta la fiducia della persona nei confronti dell'educatore, in questo sta anche il suo potere.
Anche a questo proposito, ci aiuta a chiarire la questione una storiellina. C'è un signore che gioca con sua figlia, una bambina di pochi anni. Arriva sera e la bambina dice al papà: "Papà, ho fame! Cosa mangiamo?". Il papà risponde, aprendo il frigo, "C'è della pizza, ma anche delle lasagne". La bambina vorrebbe mangiare tutte e due le cose, ma il papà risponde che non può essere così, che bisogna scegliere e invita la figlia a farlo per entrambi. La bambina ci pensa un po' su e risponde al papà: "Sì, ma chi decide chi decide?". La bambina svela in quest'esempio il gioco di potere nascosto in qualsiasi relazione educativa. Perché cos'altro è educare se non questo, se non decidere qualcosa per l'altro, anche quando questa decisione vuole che sia l'altro a decidere? Arriviamo a dire allora che la relazione educativa deve essere, ed è bene che sia se volgiamo restituirla a sé stessa, relazione conflittuale. Non semplice risposta, ma riformulazione di un bisogno. L'educatore è in qualche modo chiamato a farsi “arrogante”, nel senso di arrogarsi il diritto di sapere cosa sia meglio per l'altro. Ciò significa inoltre che egli dovrebbe sottrarsi alla legge del gradimento da parte dell'utente, rigettarla come unico metro di giudizio attorno a ciò che è educativo e ciò che è buono dal punto di vista educativo. Educare significa andare spesso contro il gradimento altrui, avere il coraggio di proporre qualcosa che non incontra, almeno inizialmente, il gradimento altrui.
La disponibilità ad affrontare la sfida educativa sui territori (parliamo in effetti di sfida per rappresentare la diversità tra la proposta educativa di cui è agente l'educatore dal fluire dell'educazione nei territori della vita sul territorio) significa quindi la disponibilità a giocarsi su un piano di potere, significa per l'educatore interrogarsi circa la sua capacità e possibilità di esercitare un potere nei confronti dell'altro? Ma se educazione è potere, chi o cosa autorizza l'educatore ad assumerselo? Da dove questa autorità può derivare? L'impressione che subito si ricava muovendosi su un terreno di questo tipo è che non riguardi affatto questioni professionali, che sia qualcos'altro a dominare la scena. Cosa stiamo tirando in ballo nel chiederci da dove il potere dell'educatore possa derivare?
È una questione di sapere. In effetti qui ora compiamo un passaggio importantissimo nel dire che tale sapere, cioè il sapere cosa sia bene per l'altro, non è affatto un sapere pedagogico, ma un sapere politico. Tutte le volte che l'educatore si chiede come faccio ad insegnare ad un ragazzo distrofico ad usare la forchetta, cioè con quali strumenti e attraverso quali processi, in seno a quale tipo di relazione e di atteggiamento da parte mia?, egli si pone domande effettivamente pedagogiche. Quando egli si chiede invece perché dovrei a lui insegnare a usare la forchetta?, cioè si chiede se per quella persona sia meglio oppure no imparare ad usare la forchetta, quella diventa una domanda di tipo politico. Tentare di rispondere ad essa significa muoversi nell'orbita di un sapere politico e solo una "grande narrazione", quelle narrazioni che tutti oggi dicono essere scomparse, sociali o religiose che siano, può autorizzarlo a decidere che l'insegnamento dell'uso della forchetta sia in effetti, in quella situazione, una buona cosa per la persona. Educazione e pedagogia non sono dunque saperi "primi", ma saperi "secondi". Non so se questo equivalga ad affermare, come era in voga una volta, "il primato della politica", cioè il primato del sapere politico sui saperi professionali. In quanto sapere secondo, l'educazione va dunque intesa come uno strumento, disporre di una competenza educativa equivale al disporre di un bisturi, un bisturi con il quale puoi uccidere, ma con il quale puoi anche salvare una vita.
L'educazione va intesa dunque come un mestiere e come ogni mestiere comprende una sua tecnicalità. Gli scopi dell'educazione sono però decisi altrove, appartengono al dominio di una razionalità prettamente politica. L'educatore può essere bravo, bravo se conosce le tecniche, bravo se padroneggia i propri strumenti, ma cosa lo fa diventare invece un buon educatore? Io credo che alla tecnica egli sia chiamato a coniugare una certa capacità nel leggere in filigrana le situazioni, una sensibilità atta a cogliere finalità politiche nel lavoro educativo (in particolare nel proprio lavoro, nel compito che gli è stato assegnato) anche quando esse risultano latenti e un essere avvezzi a transitare da una razionalità all'altra.
Torniamo a quei processi educativi che tu affermi essere latentemente al lavoro sui territori. Come secondo te si caratterizzano? Quale modello di uomo e di società, quali forme di convivenza e di relazione essi prefigurano? Come porsi o contrapporsi rispetto ad essi?
Un primo processo che mi pare in atto è quello mirante alla negazione dell'alterità, vale a dire la negazione dell'altro come portatore di istanze antagoniste. Per fare un esempio, proviamo a considerare la difficoltà che oggi incontriamo nell'affermare la tesi della diversità di interessi tra lavoratori e datori di lavoro. Chi oggi sostenga quella tesi rischia di essere tacciato come portatore di posizione classiste e pregiudizialmente antagoniste. Il significato di alterità viene trasfigurato e piegato a logiche di pura polemica politica e culturale. Ma diversità, noi sappiamo, non per forza vuol significare opposizione, contrapposizione o lotta di classe. Affermare l'alterità dell'altro, in questo caso dei suoi interessi rispetto ai miei, vuol invece sinceramente intendere una distinzione, una non sovrapposizione e una divergenza. L'alterità e l'antagonismo che ne deriva vengono negati come valori, come possibili motori di cambiamento e aperture verso prospettive sociali nuove.
I territori sono pesantemente attraversati da un'educazione volta al negare l'antagonismo come aspetto connaturato alla relazione sociale (forse non solo sociale) e tale educazione abita diversi terreni, non ultimo quello pedagogico. Che cosa infatti è l'educazione se non lo scontro con l'irriducibilità dell'altro al mio progetto? La resistenza dell'educando all'educatore non può diventare un problema da risolvere o un inconveniente del mestiere, ma parte integrante di quella relazione, suo elemento costitutivo. Se l'educando oppone vivaddio resistenza in ragione della sua libertà, il rapporto si fa conflittuale, ma su tale conflitto si può costruire l'edificio del progetto educativo condiviso. Le cose vanno spesso diversamente. Quando l'educatore, l'insegnante in qualche caso, entra in classe e nel parlare con i ragazzi si mette ad imitare linguaggi e cadenze propriamente giovanili, quando costruisce la relazione con loro mettendosi con loro, tra di loro, cioè sullo stesso piano, egli nega sé stesso e la propria alterità. La negazione del conflitto tra adulto e educando come aspetto costitutivo della relazione educativa si collega certamente a un aspetto, di natura economica e sociale. Se l'educatore viene chiamato a procurarsi uno spazio di lavoro in concorrenza con altri, se anche l'educazione diventa terreno di libero mercato, egli avrà tutti gli interessi a negare ogni possibile fonte di attrito tra sé e l'altro e a collocarlo nella posizione del cliente. In quanto tale l'educando diverrà portatore di bisogni che chiedono risposta immediata e puntuale, in quanto fornitore, l'educatore risponderà calandosi nel ruolo di chi a quelle richieste risponde in modo meccanico. Questo scenario è assai preoccupante. Qui ci sarebbe negazione totale dell'alterità, di quella dell'educatore, di quella dell'educando, di quella dell'educazione come terreno di possibile cambiamento e innovazione sociale. La domanda è perché rinunciare a quest'alterità, quando soltanto a partire da essa e dal conflitto che ne deriva può nascere un qualcosa di educativamente significativo? P.P. Pasolini, nel suo mini-trattato pedagogico intitolato "Gennariello", dice infatti: "Posso educarlo solo perché siamo diversi". Difendiamo allora il principio dell'alterità costitutiva del soggetto che abbiamo di fronte, quell'alterità che rischiamo altrimenti di perdere prima nei territori della produzione e del consumo, poi in quelli dell'educazione.
Riconoscimento dell'alterità nel partner della relazione educativa ed insieme riconoscimento di un'alterità possibile al mondo e alla società data. I due aspetti si intrecciano e si compenetrano nella consapevolezza che educare al conflitto è possibile attraversando il conflitto stesso. Un asse certamente centrale per chi oggi voglia educare in una prospettiva che non sapremmo altrimenti come chiamare se non politica. Quale altra dimensione vedi come prioritaria per un progetto di educazione alla politica che sappia davvero prefigurare, per attingere all'immaginario del movimento altermondialista, un diverso mondo possibile?
Vorrei discutere di una cosa che potremmo intitolare privatizzazione delle questioni sociali. Con tale espressione intendo quell'ideologia oggi sempre più vincente che afferma: se hai un problema, io potrei anche aiutarti a risolvere questo tuo problema, ma attenzione a non confondere il tuo problema con quello di un altro e attenzione soprattutto a non dire che il tuo problema e il suo problema sono accomunati da medesime cause, da ragioni e problemi di ordine sociale, che cioè sono socializzabili. Apro una parentesi, relativamente al termine socializzazione. Attorno a questa parola assistiamo in effetti a un fenomeno linguistico di singolare portata. La parola socializzazione è stata scippata e il suo significato profondamente alterato. Socializzare significa oggi scambiarsi visite, frequentare luoghi, fare amicizia o cose di questo tipo. Socializzare vorrebbe dire ben altre cose, invece, significherebbe riconoscere come la mia singola storia di vita, per almeno un suo aspetto, sia parte di una storia collettiva, sia comune alle storie di altri. Socializzazione significa che se nel mio condominio c'è un ragazzo che si fa di eroina, una parte del suo problema è anche mio, ma non mio perché mi riguarda direttamente (perché anch'io ho il tuo problema o un problema simile), ma perché sentendomi parte di una collettività (il condominio) che tiene dentro anche lui, ciò che lo riguarda riguarda anche me. Democrazia è anche questo, è fare della mia vicenda esistenziale, da cui non è comunque possibile prescindere, un punto di partenza per capire la vicenda dell'altro.
Educare è educare alla politica se sa promuovere “reali” processi di socializzazione, di compenetrazione tra l'io e il noi, di responsabilizzazione collettiva. A questo lego una critica ai modelli educativi di tipo auto-biografico. Viviamo un tempo di “bulimia narrativa”, in cui ciascuno sembra nutrirsi delle proprie storie più che di quelle altrui, in cui ciascuno sente il bisogno di narrarsi, in cui affannosamente si è alla ricerca di un ascoltatore che renda possibile tale confessione. Vogliamo citare ad esempio il fenomeno Facebook? E che dire di quei siti che offrono la possibilità di pubblicare il proprio romanzo senza alcun vaglio preliminare o del gran numero di romanzi in ogni caso prodotti, ciascuno centrato sulle storia personale dell'autore? Raccogliere storie nei territori della vita può essere un atto anche molto violento. Perché raccogli quella storia? Cosa ne farai? Che risposta sarà data ai bisogni espressi? Socializzazione significa prendere la tua storia, distinguere tra ciò che è soltanto tuo e ciò che è comune ad altri e far diventare questo tratto comune l'avvio di un processo politico. Questo è distinguere tra un approccio meramente narrativo, centrato esclusivamente sullo strumento, e un approccio critico-narrativo, capaci di coniugare narrazione e cambiamento.
Accanto al processo di socializzazione possiamo collocare, come suo stretto parente, il lavoro di comunità come prospettiva di lavoro, anche educativo. Che ne pensi dell'educatore che si assume il ruolo di veicolo e attore di un progetto di sviluppo di una comunità locale? Quale importante consapevolezze dovrà portare in seno nell'affrontare tale compito?
Credo che il lavoro di comunità sia un lavoro capace di far vivere alle persone che ne fanno parte, come diceva A. Gramsci, nel piccolo, un’esperienza di liberazione. Cosa vuol dire? Che le comunità possano essere, un po’ come l’idea delle comunità di base nella teologia della liberazione, dei microcosmi dove sperimentare tracce di una società futura. P. Freire e tutta la teologia della liberazione sono in effetti un mio punto di riferimento e da essi traggo a me l’idea di opzione preferenziale. I teologi latino-americani dicono "Dio ama il povero, ma non è che Dio è contento perché il povero è povero. Dio ama il povero ma odia la povertà. Dio ama il povero perché vuole liberarlo dalla sua condizione di povero". Molto lontano da un certo pietismo di cui sono spesso oggetto, Alex Zanotelli tratta i poveri in maniera a volte molto dura, non perché ce l’ha con i poveri ma perché ce l’ha con la povertà che abbruttisce le persone. Allora opzione preferenziale vuol dire: noi partiamo dal disagio, partiamo dagli ultimi, e penso che questo gli educatori e le educatrici se lo debbano ricordare, ma ultimo può anche essere il ragazzino figlio della Torino borghese, magari pieno di soldi ma che ha in sé uno sfacelo esistenziale. Partiamo dagli ultimi perché non ci siano più né primi né ultimi, cioè perché i problemi da cui siamo partiti si sono risolti, si sono estinti grazie al cambiamento che il nostro lavoro è stato capace di produrre attorno alle cause che li avevano determinati. Accanto all'estinzione dei problemi a cui ci rivolgiamo, sta allora il tema dell'estinzione del nostro lavoro e di noi stessi nella funzione educativa che ci siamo assunti. Il nostro è un mestiere che va naturalmente verso la propria estinzione, ce lo dobbiamo ricordare.
Se l’educazione vuole contribuire a costruire un mondo migliore, un mondo in cui non dovremo più educare contro le tossicodipendenze, perché queste non ci saranno più, l'educazione deve prepararsi a sparire. A questo proposito consentitemi una battuta: il miglior servizio educativo possibile è un servizio vuoto, vuoto perché dopo averlo aperto e dopo alcuni anni in cui avevi quotidianamente cento persone, gradatamente o improvvisamente che sia, non viene più nessuno perché il problema da cui eri partito è stato restituito alla città. Ben vengano le ludoteche in questo assetto sociale, in città come queste dove gli spazi per giocare liberamente sono drammaticamente assenti, ma Dio ce ne liberi e ci restituisca una città dove i bambini hanno il diritto di appropriarsi delle vie per giocare a pallone! Ben vangano gli asili nido, ma c'è davvero qualcuno tra noi che pensi che questi siano stati creati per rispondere ai bisogni di socializzazione precoce dei bambini? L'educatore deve allora predisporre il suo sottrarsi alla relazione educativa che lui stesso ha contribuito a costruire. Pedagogicamente l'educatore deve dimagrire progressivamente, rattrappirsi, spostarsi gradatamente dal centro dello spazio relazionale ai suoi margini. Il primo giorno di scuola nella classe di prima c'è solo l'insegnante, all'ultimo l'insegnate non sarebbe (o non dovrebbe essere) nemmeno più necessario, egli si è sottratto, ha restituito i suoi educandi a loro stessi, al tempo della vita ed è uscito dalla scena. L'educazione non può che essere progetto a termine. L'educazione è, abbiamo detto, esercizio del potere, potere finalizzato alla buona crescita e al buon sviluppo della personalità del partner della relazione, ma pur sempre potere. Questa situazione non è dunque tollerabile troppo a lungo, pena la perdita di libertà da parte del soggetto, non può accompagnare la vita dall'inizio alla fine (per questo sono così polemico con chi parla di educazione life-long!) ed è bene invece che abbia un termine, una sua conclusione e con ciò lasciare libero il soggetto, restituirlo alla sua vita. Il tempo della vita e il tempo dell'educare non possono coincidere. Il tempo dell'educare deve anzi assolutamente essere al primo subordinato. La mia città ideale, lo confesso, sa fare a meno dell’educazione.