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Associazione Elianto - info@eliantoweb.it
Documento culturale
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Riteniamo decisivo iniziare questa riflessione sul senso della nascita della nostra associazione, cercando di provare ad analizzare quel fenomeno storico che oggi risulta dominante che è il capitalismo nella sua versione globalizzata e neoliberista. Quel che ci pare lampante è che questa ideologia pone come suo fine intoccabile ed ultimo la ricerca esasperata del profitto e quel che ne risulta è che i diritti fondamentali delle persone e la giustizia sociale vengono sacrificati a favore degli interessi dei grandi gruppi finanziari ed in generale dalla libertà d’impresa. Pur sapendo del rischio di trattare questo argomento in termini semplicistici, ci pare chiaro che il capitalismo nella sua versione globalizzata ordini il mondo non solo da un punto di vista economico, ma da questo influenzi ogni sfera dell’esperienza sociale e quindi incida profondamente sulla cultura contemporanea.

La cultura capitalistica ha come caratteristica quella di essere molto ben incarnata nelle nostre menti, nei nostri comportamenti anche quando non vi è una specifica adesione consapevole ad essa. Si può tranquillamente dire che il genere umano è stato colonizzato da questo modo di vivere e per il momento, anche se esistono forme di resistenza , ne è pienamente coinvolto a volte in maniera consapevole e altre volte con un atteggiamento passivo. Il risvolto sociale del liberismo capitalista non si evidenzia solo con persone che non si pensano più come collettività, ma soprattutto con singoli individui che si vedono in competizione l’un l’altro per potersi realizzare sia a livello economico che a livello di vita generale. Questa competizione, assunta come espressione di libertà personale, diviene il modo per affermarsi socialmente a scapito degli altri. Naturale conseguenza di ciò è l’erosione dei legami sociali, la crisi delle comunità, che di fronte agli imperativi di competere, di accumulare e di rendersi flessibili, e più in generale di perseguire l’interesse privato, vengono sacrificate come le relazioni interpersonali e le identità collettive.

La nostra società diviene un ammasso di singoli atomi, uomini e donne omologati al sistema imperante che vivono con ansia le situazioni di disagio solo come problemi individuali, senza sentirsi parte di una comunità. Questi aspetti socio-politici influenzano decisamente l’educazione, che è poi l’ambito privilegiato del nostro agire, in quanto crediamo che una vera relazione formativa non possa prescindere da forti trame comunitarie, di dialogo, di luoghi e spazi per poter esercitare un pensiero critico, che vengono però ostacolate dalla cultura capitalistica dominante. Quella che si è configurata è la logica del “tutti contro tutti”, che fa sorgere nelle persone e soprattutto nei giovani il sentimento della paura o della vera e propria angoscia,in particolare paura dell’altro, del diverso e timore del futuro.

Acculturazione e acculturazione - Pier Paolo Pasolini
Molti lamentano (in questo frangente dell’austerity) i disagi dovuti alla mancanza di una vita sociale e culturale organizzata fuori dal Centro «cattivo» nelle periferie «buone» (viste come dormitori senza verde, senza servizi, senza autonomia, senza più reali rapporti umani). Lamento retorico. Se infatti ciò di cui nelle periferie si lamenta la mancanza, ci fosse, esso sarebbe comunque organizzato dal Centro. Quello stesso Centro che, in pochi anni, ha distrutto tutte le culture periferiche dalle quali - appunto fino a pochi anni fa - era assicurata una vita propria, sostanzialmente libera, anche alle periferie più povere e addirittura miserabili. Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale.
Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè - come dicevo - i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane. L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che «omologava» gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale «omologatore» che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?

No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i «figli di papà», i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli. Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l’hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l’analfabetismo e la rozzezza. I ragazzi sottoproletari – umiliati - cancellano nella loro carta d’identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di «studente». Naturalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo-borghese, che essi hanno subito acquisito per mimesi).
Nel tempo stesso, il ragazzo piccolo-borghese, nell’adeguarsi al modello «televisivo» - che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale - diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio «uomo» che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali. La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certe in quanto «mezzo tecnico», ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre...

[Articolo apparso sul «Corriere della Sera» del 9 dicembre 1973 con il titolo Sfida ai dirigenti della televisione; ora in P.P.Pasolini, Scritti corsari, prefazione di A.Berardinelli, Milano, Garzanti, 2008 (1975).

Educazione
Un obiettivo dichiarato e fondante del nostro gruppo è quello di dare Senso e dignità alla nostra professione e ai progetti singoli di cui siamo protagonisti. Come operatori dell'educazione crediamo infatti che la nostra attività non abbia solo la particolarità di andare incontro fisicamente alle persone e ai gruppi sul territorio, ma anche di rivolgersi con piena apertura alle domande di contenuto e direzione di "vita" che ogni singolo individuo si pone nella propria esistenza. Date queste premesse, riteniamo importante e decisivo che le nostra proposte operative nascano e diano forma ad un idea precisa e ricercata di educazione. In questi primi anni del nuovo secolo ci ritroviamo con alcune problematiche già annunciate nel passato, quali la caduta delle ideologie e l’esplosione della globalizzazione neoliberista che hanno avuto effetti enormi sulla vita delle persone. In particolare notiamo un crescente disagio culturale che è frutto della mancanza di punti di riferimento dotati di Senso, ed un individualismo imperante che fonda la sua esistenza in logiche aziendali e tribalistiche.

In questo e di questo contesto vivono anche l’educazione e la pedagogia moderna che essendo realtà storiche e culturali vengono modificate nel profondo da mutamenti sociali ed economici; in particolare l’educazione è protagonista di un delirio di onnipotenza che fa sì che ogni problema sociale, economico e politico venga trasformato in “problema educativo”. Inoltre assistiamo all’aziendalizzazione dell’educazione che porta il discorso pedagogico ad interrogarsi sulla tecnica e sul “che fare?” e non tanto sulla questione “perché farlo?”; questi due aspetti sono tra di loro collegati, perché sia intesa come panacea di tutti i mali senza sfondo ideologico e sia come mera tecnica, l’educazione ha rinunciato a porsi come pensiero che metta in discussione criticamente l’attuale assetto della società. Attraverso le nostre riunioni e un percorso di formazione intendiamo riscoprire una pedagogia come tecnica per la creazione di soggetti in stretto contatto con una progettualità socioeconomica e politica più ampia di essa, che si ponga come obiettivo il cambiamento e la trasformazione dell’esistente.

Crediamo infatti che questo essere successiva alla politica ed essere fondata e preceduta da una progettualità di tipo socio-politica restituisca quello spazio di autonomia ed efficacia all’educazione, facendola interrogare sul Senso nel quale si collocano le sue tecniche. Ci piacerebbe essere sostenuti ed incoraggiati nel difficile compito di ricerca che ci proponiamo, in una dimensione di critica radicale rispetto a questa società dei consumi e che riporti l’educazione ad essere non strumento di riproduzione sociale, ma laboratorio di idee e sogni per oltrepassare la dinamica attuale. Vorremmo concludere sperando di poter contribuire con impegno e senso critico al fatto che l’educazione possa riprendersi il posto di tecnica e strumento per realizzare attraverso i soggetti un mondo migliore (felice e giusto per tutti), attraverso metodologie specifiche non disperse in ogni angolo e momento della quotidianità, ma caratterizzate da tempi e ambiti precisi messi in atto da figure con “intenzionalità” e “fini” pedagogicamente professionali.


Aggregazione
Cosa si intende per aggregazione in questi tempi dominati dall’individualismo? Secondo noi non basta che la gente si incontri, fatto già di per sé importante vista la crescente “paura dell’altro”, ma bisogna connotare socialmente, politicamente l’incontro. Per dirla in breve anche i centri commerciali, i locali privati del commercio possono aggregare. Lungi dall’avere un atteggiamento di superiorità che crea distanza rispetto alle forme di socialità oggi presenti, dal punto di vista educativo ci pare importante riallacciare un contatto, creare legami comunitari in quei “non luoghi”. Questo non sicuramente per avallarne i contenuti e gli obiettivi, ma per entrare nel movimento reale delle esperienze quotidiane, certamente con una proposta forte di aggregazione, che siamo qua a formulare. Ci pare scontato cercare di proporre esperienze di vita comunitaria, di socialità diffusa, caratterizzate dal nostro obiettivo politico-educativo di cambiamento sociale. Questo per dire che esistono anche sul nostro territorio numerosissime esperienze, proposte e luoghi aggregativi che si propongono un fine diverso dagli esercizi commerciali e privati, ma che a volte finiscono per non funzionare per mancanza di una pianificazione precisa, puntuale e soprattutto professionale, o peggio ancora per non essere influenti in un’ottica di alternativa reale.

Per questo riteniamo che oltre a trovare forme aggregative innovative ed eventualmente sperimentali, sia più importante far crescere queste possibili proposte in un quadro di contorno fortemente influenzato all’idea di fondo che anima il nostro associarci. Questo mette in campo la questione per esempio dei centri di aggregazione. Quanto sono effettivamente spazi per l’autogestione e la crescita delle nostre comunità? Per come sono strutturati in questo momento, sono la risposta più adeguata al periodo storico? Quanto fungono da risposta emotiva di amministrazioni comunali e servizi sociali a problemi di ordine sociale, senza interrogarsi veramente sul senso che questi possono avere in un quadro dove la stessa aggregazione delle persone è vista con diffidenza? Quanto fungono da strumento di “chiusura” e “carcerizzazione” di giovani e non, come se a loro fosse dedicato un posto senza mettere in questione le reali dinamiche personali e collettive di ogni storia individuale? Quanto fungono da “ghetto” , da strumento di “controllo sociale”?
Siamo critici su queste forme perchè pensiamo che i centri di aggregazione, i centri sociali debbano riprendere o incominciare percorsi che li facciano interrogare sul loro senso originario, sui contenuti che portano avanti, essere dei laboratori di creatività sociale aperti alle dinamiche di un paese, di una città, di un territorio, di una nazione. Parlando dell’importanza fondamentale che l’aggregazione ha per noi sognatori di un contesto politico–sociale alternativo all’attuale, arriviamo a distruggere il contenuto stesso del termine aggregazione. Perchè aggregare non basta.