LO SPAZIO E LA POLITICA

By | 16 giugno 2014

  La recessione economica sta disvelando la vocazione antisociale del mercato e la natura ancillare dello Stato nei suoi confronti. Il mercato offre sempre meno la sanzione monetaria dell’utilità del lavoro e lo relega nel limbo delle cose superflue. Lo Stato dismette i suoi panni sociali: non riduce drasticamente la spesa pubblica, ma la ridefinisce in senso antipopolare (più Mose, meno scuola e sanità). In questo quadro la riduzione del conflitto di classe porta alla dispersione e alla localizzazione dei conflitti: la mappa dell’Italia è punteggiata da mille vertenze locali che faticano a connettersi. Il movimento referendario del 2011 e il movimento per il diritto all’abitare segnano, tra mille limiti e difficoltà, una controtendenza, costituendosi come realtà di portata più generale.

  Soffermiamoci in particolare sul secondo. Dalla bancarotta sociale dello Stato e del mercato emergono pratiche auto-organizzate di soddisfazione dei bisogni inappagati: per quanto riguarda il diritto alla casa sta aumentando in maniera significativa il numero dei picchetti antisfratto e delle occupazioni abitative. dirittoallacasaNon siamo ancora giunti ai livelli degli anni settanta: per rendersene conto è sufficiente un confronto limitato alla città di Torino. In una notte, nel settembre 1974, migliaia di persone occuparono 1340 alloggi Iacp nel quartiere della Falchera: di quella lotta fu simbolo Tonino Miccichè. La sua biografia di emigrato siciliano, entrato alla Fiat-Mirafiori come operaio delle Meccaniche e subito diventato un punto di riferimento per i lavoratori e gli sfruttati, è emblematica di un ciclo vertenziale ascendente, di una storia collettiva segnata dalla emancipazione degli strati subalterni, dal loro protagonismo, dalla loro presa di parola sulla scena pubblica. Oggi il fenomeno è più contenuto, molecolare, ma si consolida senza soluzione di continuità: gli sportelli di consulenza e tutela gratuita che fungono da collettori delle istanze degli sfrattati e dei senzatetto, e che promuovono picchetti e occupazioni, stanno riscontrando un afflusso crescente di famiglie. Grandi proprietà immobiliari, vuote da anni e lasciate all’incuria (e alla futura speculazione), vengono liberate dalla loro inutilità: spazi aridi riprendono vita attraverso le famiglie che li abitano. Queste pratiche presentano un oggettivo carattere antagonista rispetto alle esigenze di valorizzazione del capitale, hanno una un’enorme potenzialità di ridefinizione degli assetti urbani, dispiegano una sensibilità ecologica indicando nel riutilizzo invece che nel consumo di suolo la via maestra per risolvere il problema abitativo.

  Non mi soffermo oltre: farei male ciò che fanno bene tanti testi, sia accademici sia militanti. Ciò che mi preme sottolineare è l’emergere di un nuovo soggetto sociale dalla composizione meticcia, che prende corpo e difende la sua dignità in un percorso di lotta, e comincia a trascendere il tema dell’abitazione e a porsi sul terreno della riappropriazione del reddito.

diritto alla casa

Contro questo movimento il governo Renzi ha dichiarato guerra. Ecco un passaggio dell’articolo 5 del Piano Casa: “…gli atti aventi ad oggetto l’allacciamento dei servizi di energia elettrica, di gas, di servizi idrici e della telefonia fissa, nelle forme della stipulazione, della volturazione, del rinnovo, sono nulli, e pertanto non possono essere stipulati o comunque adottati, qualora non riportino i dati identificativi del richiedente e il titolo che attesta la proprietà, il regolare possesso o la regolare detenzione dell’unità immobiliare in favore della quale si richiede l’allacciamento…”. Invece di dichiarare guerra alla povertà, si dichiara guerra… ai poveri! Il governo Renzi rivolge le sue amorevoli attenzioni anche al movimento per la ripubblicizzazione dell’acqua: il consiglio dei ministri ha deciso di impugnare la legge della Regione Lazio sull’acqua “pubblica”, traduzione normativa della vittoria referendaria del 2011.

acqua pubblica

  Questa duplice ostilità rischia di rafforzare il senso comune prevalente secondo cui governo e amministrazione sono “cosa loro”, impermeabili alle istanze che provengono “dal basso”: di consolidare l’idea che la partita è truccata, che Stato e società civile sono poli inconciliabili, in una paradossale comunanza di prospettiva con i cantori più sfrenati delle virtù del libero mercato. La dicotomia è falsa, perchè la questione non sta nella contrapposizione tra Stato e società, tra potere costituito e atti costituenti, ma riguarda quali classi e ceti sociali riescono a consolidare la loro posizione attraverso la specifica configurazione degli apparati pubblici. Ci poniamo il dubbio se il conflitto non debba anche puntare, al di là del raggiungimento del suo obiettivo concreto, alla modificazione strutturale degli apparati pubblici; se possa esistere un conflitto efficace senza produzione di innovazione politico-istituzionale. Innovazione non solo quindi nella modalità di gestione del potere, nella costruzione del consenso, nei programmi; ma innovazione nelle modalità organizzative dei processi decisionali, per democratizzare progressivamente lo spazio del potere spezzandone le separatezze corporative e aprendolo all’influenza di chi, a livello sociale, promuove partecipazione e conflitto. Insomma…lo Stato, a tutti i livelli, come spazio da occupare, trasformare, contendere palmo a palmo.

  Sicuramente la dimensione municipale consente margini più immediati di sperimentazione. Due piccolissimi esempi. La rivendicazione della regolarizzazione dei lavoratori dei Cam e di Estate Ragazzi non ha solo un’ovvia e sacrosanta valenza economica, di per sè sufficiente a giustificarla: è la richiesta del riconoscimento di un ruolo finora misconosciuto. La definizione e la programmazione delle attività (e del loro senso) non deve prescindere dalle indicazioni degli operatori, dei minori e delle loro famiglie: si tratta di organizzare le modalità più consone perchè questo possa avvenire stabilmente, modificando l’attuale impianto organizzativo dei servizi sociali. Analogo problema comporta la richiesta di sottrarre la gestione dell’acqua a Tecnoedil: non ci interessa consegnarla a qualche tecnico o burocrate pubblico, ma attivare meccanismi di corresponsabilizzazione dei lavoratori e dei cittadini. Quali strumenti di formazione e di partecipazione possiamo predisporre? Proviamo a ragionare anche su questo?

Oreste Borra, Officine di resistenza