ACCEDERE AD UN LUOGO SIGNIFICA TRASFERIRSI IN UN MONDO

By | 20 marzo 2014

Nati e cresciuti nell’epoca del layout e dell’arte come design, e della bellezza come funzionalità, abbiamo non poche difficoltà a giustificare in che misura la specialissima aura vitale (che è l’atmosfera) influisca in senso determinante sulla biografia dei cittadini di una città. Anche se per ora non ci è dato di sapere, probabilmente, vi influisce in larga misura.

Il divorzio tra la forma e le funzioni – che si riteneva appartenessero alla città e agli spazi in genere – ha prodotto lo sbilanciamento che è sotto gli occhi di tutti, e che è riconoscibile nelle “non forme” dell’orrido/inospitale, anziché nelle forme del “familiare” (cioè in quel carattere di una città, di un quartiere, o di uno spazio, che permette anche ai nuovi venuti di disporre più liberamente della propria esistenza e di sentirsi così subito a casa propria).

Ci siamo ammalati di funzionalità e di servilità. Le cose, gli oggetti, gli spazi, gli edifici, gli agglomerati, le città possono permettersi di essere anche estremamente brutte, purché siano efficaci a garantire il “giusto” (!) funzionamento degli ‘oneri della vita’ e delle ‘operazioni umane’ (le uniche e le ultime rimaste (!?) elette a paladine del legame sociale). Ma, ci può essere un “giusto” (funzionamento) senza che ci sia la “giustizia” dell’assetto fisico-spaziale (forme, misure, materiali, proporzioni) che presiede alle atmosfere e queste – a loro volta – agli aspetti affettivi, comunicativi e simbolici caratteristici della relazione tra le persone?!

La separazione tra forma e funzionalità ha incoraggiato l’incremento in modo esponenziale della cultura dell’efficienza e della funzione. Una cosa, un oggetto, uno spazio sarebbero da pensarsi innanzitutto come funzionali e come capaci di svolgere questo o quell’altro ‘servizio’ (è preferibile, è giusto, ciò che ‘serve’). Due i problemi che ne derivano. Se tutto ciò che ci circonda è tendenzialmente inanimato, insensibile, incolore, trasparente, invisibile, piatto, allora vuol dire che tutto il “potere” (educativo, generativo, performativo) è nelle mani dell’uomo, è lui che determina chi e che cosa ha valore-significatività e quanto ne ha.

Domanda: <<siamo certi che sia giustificabile questo potere che prescinde dalla ‘lezione’ che tutte le cose (oggetti, spazi, luoghi, materiali) realisticamente sanno impartire?>>.

L’altro problema è legato all’impostazione ancora intellettualistica-cognitiva. L’esterno fisico-spaziale, risultando incapace di urtare e di suscitare atmosfere e quindi affezioni (non essendo cioè parlante), deve essere spiegato e valorizzato a partire da una presa di posizione razionale a posteriori. Anche in questo secondo caso, è ancora da una operazione che si aggiunge – in seconda battuta a partire dall’uomo – che tutto ciò che è fisico-corporeo-cosa ovvia acquista rilevanza e consistenza. In questo senso, accedere a un luogo significa trasferirsi in un contesto imparziale, doverosamente riempito di idee e di attività messe in atto, non solo per dare senso a ‘quel fare insieme qualche cosa’, ma in ultimo e soprattutto, per giustificare la significatività del luogo stesso.

L’affondo che vogliamo fare cerca invece di istruire l’intuizione fondamentale per cui accedere ad un luogo significa trasferirsi in un mondo.

Pensiamo che sia un’opera propria dell’educazione riconsiderare le atmosfere delle città, degli spazi e dei luoghi facendole divenire mitologiche, così poco aleatorie che quando ci rechiamo effettivamente in quei luoghi, ci andiamo con l’idea di fare determinate cose e non altre.

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